Virginia Woolf invocava la possibilità di avere 'Una stanza tutta per sé' nell'omonimo saggio del 1929: una stanza che permettesse anche a una donna di esprimersi liberamente.In un tempo in cui l'identità femminile e il corpo della donna vengono ancora soffocati e bistrattati da una subdola strumentalizzazione mediatica,noi sentiamo il profondo bisogno di opporci, spogliarci dei rigidi pregiudizi e riservarci un piccolo spazio 'al femminile' dove poter dar libero sfogo alla nostra arte.

mercoledì 16 febbraio 2011

La questione femminile: una ferita sociale

Qui di seguito la versione integrale dell'articolo che è uscito sulla rivista XXDonne nel mese di gennaio, scusate il ritardo!

Giovedì 25 novembre 2010, nella stanzetta di un bar di Inzago (MI), qualche ingranaggio ha cominciato a muoversi. Le immagini del documentario Il corpo delle donne, proiettato in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, hanno lasciato adito a una profonda riflessione e a un prezioso confronto generazionale.
Quello di Lorella Zanardo infatti non è solo un documentario, è un grido di protesta, lo “squillo del campanello notturno” kafkiano: rappresenta l’inizio di qualcosa di nuovo. Qualcosa che ha ancora bisogno di essere modellato, ma di cui si comincia ad assaporare l’humus.
Vediamo sempre più corpi nelle nostre scatole nere, eppure la donna sembra scomparsa dalla televisione. Se ne sono perse tutte le tracce, e al suo posto è stato lasciato un surrogato del femminile, qualcosa di levigato e innaturale che però è ormai pienamente penetrato nell’immaginario collettivo, spodestando l’identità di ciascuna di noi. Accendendo la tv l’ennesima ondata di mal sopportazione invade il mio corpo, mi martella le tempie e poi scende fino al cuore, si stringe in due pugni. Immagine di donne “grechine”, come vengono definite nel documentario, tappezzano i palinsesti di ogni programma, gli slogan di ogni pubblicità. Pezzi di carne di donna che non sanno parlare, prodotti del mercato che non comunicano nulla e, a dire il vero, sono la banalizzazione dell’erotismo stesso. Ormai il processo è talmente spudorato che non bada nemmeno alle fasce orarie protette: si è imposto violentemente nelle nostre case, nelle vie che percorriamo per andare a scuola o al lavoro, nelle riviste che leggiamo (da quelle di gossip a quelle specialistiche). Si tratta di un’intima violazione che ci viene perpetrata nel quotidiano e che non lascia ancora abbastanza spazio al diritto di replica.
Sembra difficile ricostruire il quadro in cui questo scempio ha preso forma nel corso degli anni. In una recente inchiesta di Barbie Nadeau pubblicata su Newsweek (Usa) si legge che non è un caso che lo sfruttamento del corpo femminile in Italia e il proliferarsi di un nuovo genere di maschilismo abbia cominciato a degenerare con l’avvento al potere dell’attuale presidente del consiglio. Forse non è un caso, ma vedere nel berlusconismo il casus belli di tutto questo non solo è riduttivo, ma anche rischioso: perché sarebbe come sminuire un problema, riconducendo tutto a un unico soggetto che non ha fatto altro che inserirsi in un contesto ormai ingeneratosi da tempo sfruttandone le potenzialità mediatiche. Probabilmente le origini si possono riscontrare in quel famoso primo strip-tease televisivo di una casalinga negli anni settanta, che ha dato il via a una progressiva infiltrazione di modelli monotoni e inespressivi nelle televisioni italiane, vendendosi con gli slogan dell’apparenza e dell’ostentazione del corpo femminile e che, si dice, piacciono al pubblico, soprattutto quello maschile. Le dinamiche di tale processo sono senz’altro molto più complesse e non possono essere separate da un terreno culturale pre-esistente nella società italiana. Sta di fatto che il livello di de sublimazione del femminile ha ormai raggiunto uno stato degenere e urge un intervento da parte di donne e uomini: è in gioco la dignità di entrambi i sessi, se non la loro identità.
Un’infondata giustificazione alla promozione della donna-prodotto continuano a essere gli indici di share dei vari programmi che se ne fanno portatori: come ha giustamente sottolineato Lorella Zanardo, nel suo libro che reca lo stesso titolo del documentario, guardare un programma in tv non significa automaticamente apprezzarlo. E’ più facile che lo spettatore si adegui a quanto gli viene proposto, piuttosto che il contrario. E l’Auditel registra negli indici di gradimento anche un programma che viene lasciato come sottofondo senza essere effettivamente seguito. Nulla a che fare con la qualità del programma quindi, anzi: le nefandezze italiane vengono continuamente proposte sulla base di dati meramente quantitativi. E i diritti costituzionali della donna vengono quotidianamente schiacciati senza che apparentemente vi sia alcuna reazione delle interessate: tutto continua a scorrere come una vecchia cantilena, e giorno dopo giorno gli effetti cominciano a sentirsi anche nella vita reale. Adolescenti che, in una fase già di per sé delicata dell’esistenza, fanno sempre più fatica ad accettarsi e si scrutano davanti allo specchio con sempre maggiore severità, rifacendosi a modelli troppo lontani e troppo artefatti: de facto inesistenti. Ragazzi che ricercano nella donna le stesse caratteristiche della velina vista in televisione o nella valletta che si sdraia discintamente su un tavolino in un programma di intrattenimento per famiglie all’ora di cena. Giovani donne che faticano a capire chi sono e cosa vogliono veramente. E allora forse non è vero che tutte le donne sono disposte a introitare ancora per molto questi modelli, e a permettere il loro dominio nelle case degli italiani: ci sono sia donne che uomini stanchi, e preoccupati per gli effetti devastanti che questi processi stanno iniettando nella nostra cultura. Necessitiamo di un percorso che vada alla ricerca di un rapporto sano con il proprio corpo e di uno spazio concreto in cui l’individuo possa agire liberamente. Non c’è bisogno delle trite e ritrite statistiche sulle posizioni che l’Italia occupa nelle pari opportunità o le percentuali di donne con occupazione retribuita per capire che la questione femminile è una ferita profonda che deve essere al più presto rimarginata.
Il problema femminile infatti squarcia le pareti di un più ampio contesto: quello sociale. Ciò che è emerso nel dibattito del 25 novembre è estendibile non solo alla questione della manipolazione mediatica o della violenza, ma all’intero assetto della nostra società. Quello che manca oggi , in particolar modo in Italia,non è tanto un modello (che sia quello femminile o maschile), quanto la varietà, quel pluralismo di cui la democrazia si è sempre fatta portatrice nelle parole ma non nei fatti. La possibilità non tanto di sentire rappresentata la propria parte, quanto quella di poterla esibire senza sentirsi a disagio, senza sentirsi sbagliate. Qualcosa che si rifà alla massima settecentesca di Voltaire: “Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Il punto è che oggi non ci concepiamo più come soggetti politici, come attori sociali che possono agire nel proprio contesto, ma piuttosto come oggetti individuali e atomizzati privi di spessore, il cui apporto al proprio contesto è nullo. Durante questo confronto tra generazioni (nella sala erano presenti una trentina di ragazze e ragazzi, donne e uomini dai 15 ai 50) sono emerse idee diverse, ma una necessità comune di fondo: quella di eliminare le barriere individualistiche che, per citare le parole di una signora presente, “si conformano come un tubo nero davanti a noi, che ci isola e ci rende miseramente vuoti”. Spazzare via questa obsoleta concezione per imparare a sentirsi parte di un tutto variegato, dove ciascuno sia in grado di portare il proprio io mantenendo un clima di collaborazione ed empatia con l’altro. E’ una strada lunga e dissestata, ma non è impossibile da percorrere. In questa serata si è manifestata tutta la stanchezza per la competizione selvaggia, per il pensiero unilaterale, per quella imposizione totalitaria e martellante di immagini nelle nostre televisioni. E’ da una comune esigenza che si è sviluppata un’atmosfera di solidarietà: l’esigenza di porsi in modo critico, di discutere e confrontarsi, di assumere una nuova prospettiva. Ma quale potrebbe essere questa prospettiva, sorgerebbe spontaneo chiedersi? Ebbene, il primo passo risiede proprio nel dialogo e nella sensibilizzazione: insegnare a se stessi e alle nuove generazioni come guardare e leggere criticamente i mass media. E’ tempo di mettersi in discussione, sin dalle radici, tempo di alzarsi e squarciare questo ormai scomodo quotidiano. E soprattutto è tempo di imparare a concepirsi non più come un super ego individuale, ma come un importante tassello che può fare la differenza nell’intero contesto. Tutto questo sta già accadendo.
E’ in piccoli bar come quello di Inzago che oggi si decide il futuro d’Italia.

Elisa Baccolo

Lettori fissi