Una stanza tutta per sé

Virginia Woolf invocava la possibilità di avere 'Una stanza tutta per sé' nell'omonimo saggio del 1929: una stanza che permettesse anche a una donna di esprimersi liberamente.In un tempo in cui l'identità femminile e il corpo della donna vengono ancora soffocati e bistrattati da una subdola strumentalizzazione mediatica,noi sentiamo il profondo bisogno di opporci, spogliarci dei rigidi pregiudizi e riservarci un piccolo spazio 'al femminile' dove poter dar libero sfogo alla nostra arte.

venerdì 13 maggio 2011

Perchè sono il tuo sogno eretico

No, ora basta, ora davvero si oltrepassa ogni buona sopportazione. Definire osceno, inguardabile, patetico e terrificante l'attacco di Striscia la notizia (puntata del 13 maggio, non ancora disponibile via web) contro Lorella Zanardo non mi sembra sufficiente. Mi vien solo voglia di gridare dalla rabbia, davvero. Perché ancora l'ignoranza e l'arroganza di certe persone riescono a stupirmi come una secchiata fredda in viso. Prendere tre parole e distorcele a piacimento senza permettere alcuna risposta all'altro/a è TROPPO SEMPLICE. Eppure ha un effetto degradante per chi guarda, non sa nulla e capisce solo versioni parziali di un argomento decisamente complesso, non compattabile in un minuto di "intervista". E noi che pensavamo che l'Inquisizione fosse un lontano ricordo: pare invece che ve ne sia una versione moderna, altrettanto subdola, che porge un microfono spento all'accusato e filma tutto con lo stesso piacere con cui termina un rapporto sessuale. Chi cerca di scovare la verità dietro il palcoscenico è vittima della stessa atroce condanna: un rogo virtuale a cui tutti i cittadini partecipano con morbosità, felici, senza sapere perchè, di vedere un corpo bruciare. Il vecchio meccanismo del capro espiatorio è fin troppo noto a certa gente, e sa che funziona, eccome se funziona!
Peccato che, nel bloccare fisicamente Lorella Zanardo in un post- conferenza, bombardandola di insulti e di accuse rovesciate, senza permetterle neanche un secondo di replicare con dignità, si dimostra solo un'enorme debolezza, incolmabile se non con trucchetti artificiosi.
La velina si trasforma in un'inviata assordante, difende la propria "categoria professionale" con orgoglio dimostrando di non avere capito neanche un granello del messaggio che Lorella Zanardo e sempre più persone insieme a lei tentano di lanciare, ovvero che siamo stanche e stanchi (perchè non c'è bisogno di essere femministe o sinostroidi per affermarlo) di un uso indiscriminato del corpo femminile, che come è sempre stato nei secoli viene modellato a piacere, stuprato sia fisicamente che psicologicamente. Cioè che questa versione imperante di un corpo inventato che si presenta come un unicum e che troviamo per strada tutti i giorni forse un effetto lo ha su tutti noi, ed è un effetto alienante. E questo non riguarda solo la figura della velina, che nell'intervista era un chiaro exemplum semplificatore per esporre una questione che ovviamente non è stata poi riportata da Striscia. Cioè che forse dovremmo fermarci un attimo a riflettere profondamente su cosa ci sta succedendo, e iniziare a parlarne.
Far passare per plagiatrice, mentitrice e manipolatrice di bambini una donna che ha dato il via a un movimento che ha cominciato a smuovere le piazze ricorda davvero vecchi fantasmi (la cicuta ha solo altre fattezze), e mi riga il volto di lacrime amare.

Elisa

mercoledì 16 febbraio 2011

La questione femminile: una ferita sociale

Qui di seguito la versione integrale dell'articolo che è uscito sulla rivista XXDonne nel mese di gennaio, scusate il ritardo!

Giovedì 25 novembre 2010, nella stanzetta di un bar di Inzago (MI), qualche ingranaggio ha cominciato a muoversi. Le immagini del documentario Il corpo delle donne, proiettato in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, hanno lasciato adito a una profonda riflessione e a un prezioso confronto generazionale.
Quello di Lorella Zanardo infatti non è solo un documentario, è un grido di protesta, lo “squillo del campanello notturno” kafkiano: rappresenta l’inizio di qualcosa di nuovo. Qualcosa che ha ancora bisogno di essere modellato, ma di cui si comincia ad assaporare l’humus.
Vediamo sempre più corpi nelle nostre scatole nere, eppure la donna sembra scomparsa dalla televisione. Se ne sono perse tutte le tracce, e al suo posto è stato lasciato un surrogato del femminile, qualcosa di levigato e innaturale che però è ormai pienamente penetrato nell’immaginario collettivo, spodestando l’identità di ciascuna di noi. Accendendo la tv l’ennesima ondata di mal sopportazione invade il mio corpo, mi martella le tempie e poi scende fino al cuore, si stringe in due pugni. Immagine di donne “grechine”, come vengono definite nel documentario, tappezzano i palinsesti di ogni programma, gli slogan di ogni pubblicità. Pezzi di carne di donna che non sanno parlare, prodotti del mercato che non comunicano nulla e, a dire il vero, sono la banalizzazione dell’erotismo stesso. Ormai il processo è talmente spudorato che non bada nemmeno alle fasce orarie protette: si è imposto violentemente nelle nostre case, nelle vie che percorriamo per andare a scuola o al lavoro, nelle riviste che leggiamo (da quelle di gossip a quelle specialistiche). Si tratta di un’intima violazione che ci viene perpetrata nel quotidiano e che non lascia ancora abbastanza spazio al diritto di replica.
Sembra difficile ricostruire il quadro in cui questo scempio ha preso forma nel corso degli anni. In una recente inchiesta di Barbie Nadeau pubblicata su Newsweek (Usa) si legge che non è un caso che lo sfruttamento del corpo femminile in Italia e il proliferarsi di un nuovo genere di maschilismo abbia cominciato a degenerare con l’avvento al potere dell’attuale presidente del consiglio. Forse non è un caso, ma vedere nel berlusconismo il casus belli di tutto questo non solo è riduttivo, ma anche rischioso: perché sarebbe come sminuire un problema, riconducendo tutto a un unico soggetto che non ha fatto altro che inserirsi in un contesto ormai ingeneratosi da tempo sfruttandone le potenzialità mediatiche. Probabilmente le origini si possono riscontrare in quel famoso primo strip-tease televisivo di una casalinga negli anni settanta, che ha dato il via a una progressiva infiltrazione di modelli monotoni e inespressivi nelle televisioni italiane, vendendosi con gli slogan dell’apparenza e dell’ostentazione del corpo femminile e che, si dice, piacciono al pubblico, soprattutto quello maschile. Le dinamiche di tale processo sono senz’altro molto più complesse e non possono essere separate da un terreno culturale pre-esistente nella società italiana. Sta di fatto che il livello di de sublimazione del femminile ha ormai raggiunto uno stato degenere e urge un intervento da parte di donne e uomini: è in gioco la dignità di entrambi i sessi, se non la loro identità.
Un’infondata giustificazione alla promozione della donna-prodotto continuano a essere gli indici di share dei vari programmi che se ne fanno portatori: come ha giustamente sottolineato Lorella Zanardo, nel suo libro che reca lo stesso titolo del documentario, guardare un programma in tv non significa automaticamente apprezzarlo. E’ più facile che lo spettatore si adegui a quanto gli viene proposto, piuttosto che il contrario. E l’Auditel registra negli indici di gradimento anche un programma che viene lasciato come sottofondo senza essere effettivamente seguito. Nulla a che fare con la qualità del programma quindi, anzi: le nefandezze italiane vengono continuamente proposte sulla base di dati meramente quantitativi. E i diritti costituzionali della donna vengono quotidianamente schiacciati senza che apparentemente vi sia alcuna reazione delle interessate: tutto continua a scorrere come una vecchia cantilena, e giorno dopo giorno gli effetti cominciano a sentirsi anche nella vita reale. Adolescenti che, in una fase già di per sé delicata dell’esistenza, fanno sempre più fatica ad accettarsi e si scrutano davanti allo specchio con sempre maggiore severità, rifacendosi a modelli troppo lontani e troppo artefatti: de facto inesistenti. Ragazzi che ricercano nella donna le stesse caratteristiche della velina vista in televisione o nella valletta che si sdraia discintamente su un tavolino in un programma di intrattenimento per famiglie all’ora di cena. Giovani donne che faticano a capire chi sono e cosa vogliono veramente. E allora forse non è vero che tutte le donne sono disposte a introitare ancora per molto questi modelli, e a permettere il loro dominio nelle case degli italiani: ci sono sia donne che uomini stanchi, e preoccupati per gli effetti devastanti che questi processi stanno iniettando nella nostra cultura. Necessitiamo di un percorso che vada alla ricerca di un rapporto sano con il proprio corpo e di uno spazio concreto in cui l’individuo possa agire liberamente. Non c’è bisogno delle trite e ritrite statistiche sulle posizioni che l’Italia occupa nelle pari opportunità o le percentuali di donne con occupazione retribuita per capire che la questione femminile è una ferita profonda che deve essere al più presto rimarginata.
Il problema femminile infatti squarcia le pareti di un più ampio contesto: quello sociale. Ciò che è emerso nel dibattito del 25 novembre è estendibile non solo alla questione della manipolazione mediatica o della violenza, ma all’intero assetto della nostra società. Quello che manca oggi , in particolar modo in Italia,non è tanto un modello (che sia quello femminile o maschile), quanto la varietà, quel pluralismo di cui la democrazia si è sempre fatta portatrice nelle parole ma non nei fatti. La possibilità non tanto di sentire rappresentata la propria parte, quanto quella di poterla esibire senza sentirsi a disagio, senza sentirsi sbagliate. Qualcosa che si rifà alla massima settecentesca di Voltaire: “Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Il punto è che oggi non ci concepiamo più come soggetti politici, come attori sociali che possono agire nel proprio contesto, ma piuttosto come oggetti individuali e atomizzati privi di spessore, il cui apporto al proprio contesto è nullo. Durante questo confronto tra generazioni (nella sala erano presenti una trentina di ragazze e ragazzi, donne e uomini dai 15 ai 50) sono emerse idee diverse, ma una necessità comune di fondo: quella di eliminare le barriere individualistiche che, per citare le parole di una signora presente, “si conformano come un tubo nero davanti a noi, che ci isola e ci rende miseramente vuoti”. Spazzare via questa obsoleta concezione per imparare a sentirsi parte di un tutto variegato, dove ciascuno sia in grado di portare il proprio io mantenendo un clima di collaborazione ed empatia con l’altro. E’ una strada lunga e dissestata, ma non è impossibile da percorrere. In questa serata si è manifestata tutta la stanchezza per la competizione selvaggia, per il pensiero unilaterale, per quella imposizione totalitaria e martellante di immagini nelle nostre televisioni. E’ da una comune esigenza che si è sviluppata un’atmosfera di solidarietà: l’esigenza di porsi in modo critico, di discutere e confrontarsi, di assumere una nuova prospettiva. Ma quale potrebbe essere questa prospettiva, sorgerebbe spontaneo chiedersi? Ebbene, il primo passo risiede proprio nel dialogo e nella sensibilizzazione: insegnare a se stessi e alle nuove generazioni come guardare e leggere criticamente i mass media. E’ tempo di mettersi in discussione, sin dalle radici, tempo di alzarsi e squarciare questo ormai scomodo quotidiano. E soprattutto è tempo di imparare a concepirsi non più come un super ego individuale, ma come un importante tassello che può fare la differenza nell’intero contesto. Tutto questo sta già accadendo.
E’ in piccoli bar come quello di Inzago che oggi si decide il futuro d’Italia.

Elisa Baccolo

sabato 2 ottobre 2010

Stalking

Buon giorno!
Per la prima volta scrivo anche io sul nostro blog.
Quest'estate ho raccolto delle informazioni sui diritti delle donne, assolutamente del tutto casualmente. Vorrei condividere con tutti voi questi "documenti" solo che, sbadata come sono, ovviamente ho perso tutti i volantini di queste cose.
Ma non temete! Essendo io informatica e visto che ormai il mezzo per recuperare qualsiasi tipo di informazione è niente popò di meno che che l'amato Google (che l'altro giorno ha compiuto gli anni), sono riuscita a recuperare tutto quanto!

Voglio incominciare con il parlare dello Stalking.
E' vero, non c'entra del tutto con il gruppo Frida, ma io l'ho trovato interessante e ho deciso di condividerlo con voi!
Vi copio ciò che avevo trovato sul volantino, che poi ho scoperto essere proveniente dal sito delle pari opportunità.

"L'attenzione che si trasforma in ossessione. Molestie quotidiane, silenziose, difficili da individuare e arrestare. E il sospetto diventa paura, erode la libertà fino a costringersi in una prigione soffocante. Questo è lo stalking: comportamenti reiterati di sorveglianza, controllo, contatto pressante e minaccia che invadono con insistenza la vita di una persona per toglierle la quiete e l’autonomia. Gli atti persecutori sono ora un reato ben definito, punito con condanne da sei mesi a quattro anni di reclusione.

Dall'entrata in vigore della legge sullo stalking, il 25 febbraio 2009, è emerso un fenomeno dalle dimensioni allarmanti, portando alla luce centinaia di richieste di aiuto da parte delle vittime.

[..]

Le vittime possono querelare subito lo stalker o chiederne prima l'ammonimento. Una risposta concreta ai cittadini, dopo un lungo oblio normativo.

I comportamenti persecutori sono riconducibili a molestie reiterate, sia sessuali che psicologiche, tali da causare uno stato di prostrazione che induce la vittima a modificare il modo di vivere quotidiano. Nello specifico, la legge aumenta le condanne da sei mesi a quattro anni, e le pene sono aggravate se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona legata alla vittima da relazione affettiva, se avviene a danno di un minore, di una donna incinta, di una persona disabile. Il reo è punito con l'ergastolo se, nell'escalation di atti persecutori accertati, uccide la vittima.

Per una prima assistenza è attivo 24 ore su 24 il numero gratuito antiviolenza 1522, in grado di mettere in collegamento diretto le vittime con le questure, offrendo anche supporto psicologico e giuridico."

Questo è un documento risalente al 17 Luglio 2009, Ministero delle Pari Opportunità ed è solo uno dei due volantini che avevo trovato, l'altro lo pubblicherò al più presto!
Buona giornata!
Almish

mercoledì 21 luglio 2010

Sarebbe uno dei più grandi fraintendimenti della storia

Tornavo da un breve viaggio nelle Marche e, mentre tentavo invano di assopirmi spiccicata contro il finestrino dell'auto, una voce alla radio coglie la mia attenzione. Si sta parlando di Genesi: chiedo a mio padre quando mai avesse iniziato ad ascoltare radio Maria, e invece scopro che, oltre a non essere il canale suddetto, il discorso risulta assai interessante. L'esperto in questione, di cui purtroppo non sono riuscita ad annotare il nome, spiegava il complesso significato di una delle frasi più celebri riguardanti la creazione dell'uomo: "E dio creò l'uomo a sua immagine...lo creò maschio e femmina". Anzitutto l'esperto in testi antichi ha chiarito come l'espressione 'a sua immagine', soprattutto nella versione originale, possa fuorviare dall'interpretazione più comune e significare che l'uomo sia stato creato con una sua propria immagine, distinta da quella di Dio. Questa immagine, come risulterebbe dall'espressione 'lo creò maschio e femmina', prenderebbe la forma di un androgino, ovvero di un essere in principio perfetto, di entrambi i sessi: questo secondo quanto emergerebbe dal primo capitolo della Genesi. E' nel secondo capitolo che poi, come è risaputo, secondo l'univoca interpretazione che vi è sempre stata fatta, la donna sarebbe stata creata dalla costola di Adamo: interpretazione che nel corso dei secoli, assieme all'episodio della mela, ha sempre contribuito a nutrire l'immagine della donna come asservita rispetto all'uomo, essendo non solo prima peccatrice ma anche creazione di 'secondo piano' , nata sostanzialmente per fare da compagna e per sfornare figli. Eppure l'esperto spiegava che potrebbe esserci stato un gravissimo errore di traduzione, fatto che nella storia della filologia è più frequente di quanto si possa pensare: infatti il termine 'Tzela', che è sempre stato tradotto come 'costola', ha un altro e più probabile significato. Esso infatti sarebbe più correttamente traducibile come 'lato', 'parte'. Il che si concilierebbe perfettamente con quanto detto prima: Dio avrebbe creato dapprima l'uomo, e l'avrebbe poi diviso in due parti, secondo i due sessi che lo costituivano: maschio e femmina. Questo significherebbe che la donna non sarebbe stata affatto creata dall'uomo, ma semplicemente separata dal suo lato, e uomo e donna sarebbero nati nello stesso istante, senza alcuna differenza. Inutile dire che se questa è l'interpretazione corretta ( e l'esperto, credente, propendeva proprio per questa), secoli di ingiustizie si riempirebbero di maggiore contraddizione. In primis perchè si è sempre fatto riferimento all'immagine di peccatrice per giustificare la presunta natura luciferina della donna, quando da questo punto di vista la Bibbia non ha alcun fondamento storico; ma soprattuto in secundis perchè ci si sarebbe sempre appellati a una traduzione erronea, ovvero a una nozione che nemmeno il testo sacro stesso avrebbe mai significato.
Una doppia fregatura.



Eli

lunedì 24 maggio 2010

Tempo di andare incontro alla nostra autenticità

"Tempo fa, illustravo a una giovane donna, mamma e casalinga, il progetto Il Corpo delle Donne: era interessata, anche se pareva che di certi argomenti sentisse parlare per la prima volta. Dopo un po’ ci ha raggiunte il marito, che mi guardava ironico: di bell’aspetto, aitante, scherzava sul fatto che “le donne è meglio che restino a casa”. Poi ha guardato la moglie, e lei, come se io non fossi stata presente, tra l’incerto e il bisognoso di approvazione gli ha detto: “Marco, io ascolto ma alla fine non sono come loro”. Come me e come altre come me, immagino. “La miglior schiava non ha bisogno di essere battuta, ella si batte da sola,” ci ricorda Erica Jong in Alcestis on the Poetry Circuit.
I tentativi di sopravvivere con la propria originale identità vengono oscurati o rinnegati in favore delle regole del mercato, che sul corpo delle donne ricava cospicui profitti. E non c’è quindi poi molta differenza tra Cristina, che si dibatte tra una personalità che orgogliosamente dichiara “con le palle” e una sesta di reggiseno che si è procurata per rispondere alle leggi dello spettacolo, e una manager che avanza nelle rigide gerarchie aziendali sottoponendosi a ritmi di lavoro disumani, permettendo che logiche maschili di intendere il lavoro si portino via quegli anni che il suo corpo vorrebbe con forza destinare anche ad altro.
Paura, terrore.
Paura comprensibile, perché cercare di imporsi – ma qui vorrei scrivere, di esistere a nostro modo – prevede una profonda consapevolezza e una grande fiducia in sé, ma ancor più nelle nostre simili. E una buona dose di coraggio. Questo cammino verso una reale emancipazione non si attua né facilmente, né velocemente, tanto meno da sole. Il coraggio serve ad accettare che nei percorsi di cambiamento profondo difficilmente si ottiene il consenso della società.
Molte di noi, e io per prima, hanno creduto di avere coraggio a sufficienza per il fatto di aver sovvertito il sistema che ci voleva fuori dalle regole del gioco degli uomini, quelle sulle quali il mondo si organizzava. Alle leve del potere siamo arrivate pagando prezzi altissimi, che difficilmente si ha la generosità di denunciare. Perché è ora di dire che non era quella l’emancipazione che cercavamo. Non volevamo, per diventare visibili, e in’ultima analisi per esistere, dover abdicare al femminile profondo, che significasse un figlio o semplicemente un modo di essere. Il modello maschile che abbiamo introiettato e che fa sì che ora ci guardiamo come pensiamo che ci guarderebbe un uomo, quel modello che rende una velina sicura di piacersi di più con un seno sproporzionatamente grande perché risponde a un presunto desiderio maschile che lei confonde con il proprio desiderio, quel modello, dicevamo, è lo stesso che ci ha fatto aderire a un sistema di vita impostato su valori maschili, al quale ambivamo perché sembrava prometterci una meta incredibilmente attraente: esistere, finalmente. Con fatica e sconcerto, alcune di noi stanno prendendo coscienza del fatto che oggi il cambiamento in gioco è molto più grande e faticoso, poiché prevede un nuovo paradigma dove nuove regole, o meglio, nuovi stimoli debbano essere suggeriti da noi donne, per garantire l’esistenza del femminile nostro, ma soprattutto delle giovani donne.
In questa fase di transizione si resta sole, e certamente orfane di approvazione.
Senza dubbio, la prima approvazione che viene a mancare è quella maschile, che tante di noi faticosamente, in alcuni casi persino immolando la propria vita, hanno cercato. Perché è proprio questa l’approvazione di cui sentivamo il bisogno, quella degli uomini, con i quali, incuranti dei nostri veri bisogni, volevamo condividere il potere. Approvazione per un bel seno nuovo e un sorriso ammiccante, o approvazione per un piano di ridimensionamento del personale condotto senza pietà: alla fine è il riconoscimento maschile, l’unico che fino a oggi abbia contato, quello che cerchiamo.
Ecco perché è indispensabile unirci ad altre donne se vogliamo incamminarci verso un vero cambiamento, senza la paura di riconoscere la nostra fragilità nei volti delle compagne di percorso: il cammino può essere lungo e la meta non certa.
È vero, serve un coraggio da leonesse, perché il consenso lo si acquisisce velocemente solo raggiungendo obiettivi che richiedono di percorrere sentieri già battuti: e noi donne siamo state maestre nell’essere brutte copie di modelli già esistenti, sempre e solo per ottenere l’ambita approvazione. In un modo o nell’altro, anche qui vale la feroce seppur verissima definizione “schiave radiose”: schiave anche noi, e di un sistema.
È tempo di far capire al mondo chi siamo, e di mostrare cosa possiamo fare. Tempo di andare incontro alla nostra autenticità, e da lì partire per trovare la forza di costruire il nuovo. "

tratto da "Il Corpo delle Donne"di Lorella Zanardo, ed. Feltrinelli .

mercoledì 19 maggio 2010

Io non ci sto









Mi permetto di inaugurare questo blog proponendo un appello, lanciato da 'Un altro genere di comunicazione' (http://comunicazionedigenere.wordpress.com/) ovvero, citando, 'Una mobilitazione in Rete per dire NO al programma tv e al degrado televisivo imperante'. L'iniziativa si riferisce al programma 'La pupa e il secchione' e invita ad esprimere la propria indignazione nei confronti di programmi degradanti come il suddetto (per l'immagine distorta che propongono del rapporto uomo-donna, e per la strumentalizzazione di un'ignoranza decisamente poco verosimile) mandando una mail alla redazione di Italia 1, esprimendo il proprio dissenso e sottoscrivendo il formato lettera già esistente che riporto qui sotto. Invito tutti a copiarlo su questa pagina http://www.tv.mediaset.it/italia1/form/form_2.shtml e firmarlo. Già in molti hanno risposto all'appello, la data che ci si è prefissi come termine è il 25 maggio!





Gentile redazione,il programma “La pupa e il secchione” svilisce le persone: uomini e donne. Lo stereotipo della donna pupa e dell’uomo secchione (e che viene umiliato dalla donna in questione) è vergognoso e appiattisce la molteplicità delle persone.
E’ vergognoso perché incita uomini e donne a svilire il proprio pensiero in ragione di un’apparenza che sembra pagare maggiormente ed è vergognoso perché fa sembrare uomini e donne degli animali, raggiungendo il grado zero della relazione.E’ questo l’esempio che la nostra televisione vuole dare? Non ci fate una bella figura come emittente e come azienda televisiva.
E se fino ad oggi in molti hanno subito in silenzio, ora siamo consapevoli che con il passaparola possiamo fare emergere anche un pensiero alternativo.
Riflettete sulle parole del Presidente Napolitano:
“Uno stile di comunicazione che offende le donne “nei media, nelle pubblicità, nel dibattito pubblico può offrire un contesto favorevole dove attecchiscono molestie sessuali, verbali e fisiche, se non veri e propri atti di violenza anche da parte di giovanissimi” (fonte Ansa).
In fede



firma

Vi invito a visitare il blog che ha lanciato l'iniziativa, di cui ho inserito il link a inizio pagina!

Grazie per l'attenzione,

Elisa





Elisa

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